Da questa mattina è tutto un leggere di documenti, infografiche, analisi sulle conseguenze del voto inglese.
Alcuni sono elaborati da centri studi, altri da società di consulenza o uffici di rappresentanza a Bruxelles delle più importanti aziende multinazionali.
Anche FB Lab, il centro studi della FB & Associati, ne ha prodotta una.
Gli interessati la possono trovare qui,
L’impressione che se ne ricava è che ci stiamo tutti quanti muovendo su un terreno sconosciuto.
Da sempre, quello che chiamiamo Unione Europea, è stato un insieme di Stati che si aggiungevano. Il lessico a Bruxelles, per oltre un ventennio, è stato dominato dalla parola “allargamento”. Come se fosse un processo inarrestabile e scontato.
Ma in politica, come nella vita, di scontato non c’è nulla.
Non sono un economista quindi non sono in grado di comprendere gli effetti economici dell’uscita.
Che ci saranno.
Mi interessano più gli aspetti e le conseguenze politiche.
Prima considerazione di ordine generale.
Il primo che parla di voto di “pancia” dovrebbe essere esiliato.
Così come di voto “populista” oppure “antipolitica”.
Gli inglesi hanno votato. Punto.
Pancia, cuore, ragione, sentimento sono tutte parole prive di senso.
Anche perché alcuni dati sono chiari ed evidenti.
Le giovani generazioni hanno chiesto di rimanere in Europa.
I vecchi di uscire.
Londra vota massicciamente per il REMAIN, così come la Scozia e l’Irlanda del Nord. In quasi tutte le altre zone vince a valanga il “LEAVE”.
Altro aspetto.
Quello che è emerso è una leadership politica non all’altezza. Che non ha capito fino in fondo il proprio Paese.
Ha giocato con il fuoco e si è bruciata.
L’imputato numero uno è David Cameron. Il referendum lo ha promesso lui, un anno fa, per tenere buona la sua minoranza interna prima delle ultime elezioni politiche.
Il problema che quelle elezioni le ha vinte e anche bene, facendo venire meno così l’alleanza necessaria con i liberali (pesantemente sconfitti). Un Governo di coalizione non avrebbe avuto alcuna difficoltà a derubricare la vicenda e cancellare il referendum dall’agenda politica.
Ma a quel punto, unico vincitore delle elezioni, Cameron ha dovuto indire il referendum.
Fidandosi dei sondaggi (ancora?!?!) ha pensato prima alla sua rielezione per poi rimanere stritolato dall’ingranaggio da lui realizzato.
A casa. Cosa che ha fatto oggi, rassegnando le dimissioni.
Un altro che dovrebbe andare a casa è Jeremy Corbyn, il segretario del Labour.
Che fosse scialbo e opaco passi. Ma lui non era proprio credibile quando sosteneva le ragioni del “Remain”.
Che perde a valanga proprio nei collegi “rossi”.
Le sue pozioni, sempre critiche nei confronti delle impostazioni economiche dell’Unione, lo rendevano il testimonial meno adatto.
I laburisti stanno diventando sempre più marginali. Urge un “cambio” ma quando?
Qualche problema lo avrà anche uno dei vincitori, insieme a Farange, e cioè l’ex sindaco di Londra, Boris Johnson.
Per mettere in discussione la leadership di Cameron ha giocato a distinguersi e differenziarsi. E quindi a sposare le ragioni del NO.
Nelle settimane scorse, parlando con alcuni colleghi inglesi, tutti apprezzavano l’astuzia tattica del buon Boris.
Perché tutti pensavano che comunque l’esito del referendum fosse scontato.
Con il Regno Unito che rimane nell’Unione ma con un Cameron indebolito che deve lasciare spazio nel giro di un paio d’anni all’arrembante Johnson.
Gli elettori invece hanno preso sul serio il quesito referendario, sono andati in massa a votare ed hanno espresso la loro opinione in modo chiaro ed inequivocabile.
Johnson sostituirà Cameron ma dovrà gestire una situazione diversa da quella che lui stesso aveva prospettato.
Ora comincerà la procedura prevista dall’Art. 50.
Che si chiuderà nel giro di due anni.
Nel frattempo consiglio, agli interessati, di cominciare a mandare il proprio cv alle istituzioni comunitarie.
Pare che siano circa 2.000 i posti che saranno lasciati liberi dagli inglesi!
P.S: Mi manca tanto Tony Blair…
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