L’inchiesta sui rapporti ambigui tra gruppi d’interesse filorussi e pezzi della nuova amministrazione Trump rischia di diventare una tempesta dagli esiti imprevedibili.
O, per restare coerenti con il titolo di questo post, rischia di far impazzire la maionese…
Dal momento che in questo momento non è possibile prevederne i confini e quindi i futuri effetti finali.
L’ultima settimana è stata sorprendente.
Iniziata con l’incriminazione di Paul Manafort, avvocato, lobbista e per tre mesi campaign manager di Donald Trump, è finita con le dimissioni di Tony Podesta.
Un nome che a Washington è strettamente collegato ai Clinton e al Partito Democratico.
I due fratelli (Tony e John) Podesta, infatti, sono stelle di primaria grandezza in due campi distinti ma collegati.
Il primo ha creato (ormai anni fa), una delle più importanti società di lobbying degli Stati Uniti: al terzo posto nella classifica 2016 elaborata da Opensecrets con un fatturato di circa 24 milioni di dollari.
Imponente e prorompente come il suo fisico, famosissimo, affabile, organizzatore di party leggendari, proprietario di una collezione di arte moderna da far invidia ad un museo, al centro di un infinito reticolo di relazioni bipartisan.
L’uscita dal gruppo che porta il suo nome ha creato un vero e proprio terremoto: alcuni clienti hanno confermato l’intenzione di andare avanti, altri hanno lasciato, altri ancora stanno seguendo senior account e partner che stanno rassegnando le dimissioni. Non è una Caporetto ma poco ci manca.
Completamente diverso, anche fisicamente, il fratello John. Con un curriculum politico che lo lega indissolubilmente al partito Democratico e ai Clinton in particolare: capo dello staff di Bill alla Casa Bianca, consigliere di Barack Obama e poi capo della campagna elettorale di Hillary.
Insomma per i fratelli Podesta il biennio 2016 e 2017 si sta chiudendo nel peggiore dei modi: poteva costituire per entrambi il coronamento di una carriera spendente, mentre si sta rivelando un incubo senza fine.
Per chi vuole approfondire segnalo il bellissimo articolo di Roxanne Roberts sul Washington Post. Indicatomi dall’imperdibile Night Review di Gianluca Di Tommaso
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