Oggi, in prima pagina, il Corriere della Sera ospita un articolo di fondo del professore Francesco Giavazzi.
Economista illustre, editorialista, è considerato, da sempre, uno dei più profondi conoscitori dei processi di liberalizzazione del nostro Paese.
Ricordo che le famose “lenzuolate” di Bersani, allora Ministro dello Sviluppo Economico nel secondo Governo Prodi, fossero ispirate alla famosa “agenda Giavazzi” e cioè ad alcuni articoli in cui si elencavano le priorità per ammodernare parte del nostro sistema economico.
Non entro nel merito dell’analisi, in gran parte condivisibile.
Soprattutto nella parte in cui sottolinea che molte norme, previste nel testo governativo, sono state depotenziate durante il dibattito parlamentare. E di come questo sia avvenuto anche a causa di conflitti d’interesse palesi presenti all’interno del nostro Parlamento.
Contesto, modestamente, lo schema generale.
Lobby, per il Professore, sono solo i micro interessi che resistono al cambiamento.
Sono i tassisti che si scagliano contro Uber, per richiamare l’esempio con cui si conclude l’articolo, o aziende monopoliste o ordini professionali che tentano di mantenere i propri privilegi.
Giavazzi dunque sposa in pieno la vulgata tutta italiana: le lobby sono i cattivi, che non hanno una visione di policy, che contribuiscono a rendere arretrato il nostro Paese.
Non è così, dal momento che esistono lobbies (meglio interessi organizzati) anche a sostegno dei provvedimenti che aprono alla concorrenza in molti settori “chiusi”, garantiti da anni di legislazione coorporativa.
C’è un altro aspetto che il Professore non considera nella sua analisi, e cioè la c.d. “tirannia dello status quo”.
Da questo punto di vista non siamo un’eccezione, dal momento che esistono decine di trattati nella letteratura anglosassone dedicati a questo tema.
Lo “status quo” rappresenta pur sempre un punto di equilibrio, in alcuni casi consolidato negli anni, su cui una parte della società fa affidamento.
Cambiare dunque non è mai facile. E richiede molti più sforzi rispetto al mantenimento della situazione attuale: che se non soddisfa tutti rassicura molti.
Dal mio punto di vista di lobbista, l’Italia non è un paese bloccato dalle lobbies, ma dal fatto che esistono pochi soggetti consolidati che influenzano il processo decisionale. Rimane così ancora dominante la presenza di troppi gruppi arroccati in una estrema difesa delle proprie rendite di posizione, che, alla fine, non lasciano spazio a nient’altro.
All’Italia dunque manca un sistema competitivo di gruppi di interesse. La salvezza di questo Paese non è fare guerra alle lobby, ma sviluppare un insieme di regole e di norme che permetta di identificare e promuovere i gruppi di interesse.
Solo attraverso la loro moltiplicazione e organizzazione, e solo attraverso un sistema politico che, dopo l’esplicito riconoscimento, ne permetta lo sviluppo le la competizione, si può sperare di avere un Paese moderno.
Se ben gestito questo cambiamento può determinare una situazione sociale, politica ed economica migliore rispetto a quella precedente.
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