Sporco Lobbista – Il blog di Fabio Bistoncini

Pubblicato da Fabio Bistoncini il 04/09/2015 & archiviato in In evidenza, Lobbying

Uber-ization of activism

E’ il titolo di un bell’articolo del sociologo americano Edward Walker, pubblicato sul New York Times ad agosto, ripreso da Federico Rampini, su La Repubblica, qualche giorno dopo.

In cui si sottolinea la capacità persuasiva del modello di lobbying messo in campo da alcune società americane, di cui Uber è l’esempio particolarmente calzante.

Il caso da cui partono entrambi gli autori è la forte contrapposizione nei mesi scorsi tra la società californiana ed il sindaco di New York, Bill de Blasio.

L’amministrazione cittadina, infatti, aveva ipotizzato di mettere un tetto numerico agli autisti che potevano offrire i servizi di Uber.

Per contrastare questa decisione l’azienda ha sviluppato una strategia di lobbying imperniata su due cardini:

quello più classico e tradizionale (campagne di advertising, contatti diretti con i decisori, sit-in davanti alle sedi istituzionali, ecc. ecc.);

uno più innovativo basato sul coinvolgimento diretto degli utenti. Ogni volta che un cittadino di New York utilizzava l’app di Uber per ricercare una macchina, appariva un messaggio eloquente (NO CARS – SEE WHY) e veniva indirizzato sulla petizione che chiedeva al Sindaco di fare marcia indietro. Lo hanno fatto 17.000 persone. Non un numero immenso ma sufficiente a spingere l’amministrazione a riconsiderare la propria posizione.

Battaglia vinta dunque.

Ma, come osserva Rampini, Uber non è un caso isolato.

Amazon ha utilizzato lo stesso approccio durante lo scontro con gli editori e gli autori sulle royalties da pagare, Netflix per combattere le grandi società di Tlc sul tema della NET Neutrality, Airbnb per contrastare la lobby degli albergatori, e così via.

Per chi, come il sottoscritto, segue da tanti anni l’evoluzione dei gruppi d’interesse e del lobbying, questo approccio non è certamente una novità assoluta.

Il termine tecnico è grass root lobbying (o lobbying indiretto) e consiste nel coinvolgimento/attivazione dell’opinione pubblica (o meglio di segmenti di essa) a sostegno delle proprie istanze.

Moltissimi gruppi d’interesse “tradizionali” lo svolgono con successo da anni. Si pensi all’NRA, (l’Associazione che riunisce i produttori di armi da fuoco) che riesce, grazie al sostegno attivo dei propri aderenti, a vanificare ogni tentativo di limitare il libero acquisto e la libera circolazione di pistole e fucili negli Stati Uniti. Anche il Presidente Obama ha dovuto fare marcia indietro…

Quello che è completamente diverso è il contesto di riferimento.

L’avvento della Rete, la sua pervasività nella vita quotidiana, la presenza di strumenti che ne permettono l’utilizzo costante, non ha prodotto soltanto applicazioni e software che consentono un’attivazione immediata degli utenti.

Aspetto certamente importante ma non esaustivo.

Quello che sta cambiando tutto è la disintermediazione che sta modificando i nostri comportamenti di consumatori (Claudio Cerasa su Il Foglio ha più volte parlato di generazione You and Me) e il nostro concetto di cittadinanza che non si esplica più soltanto nei “luoghi” tradizionali (partiti, sindacati, circoli culturali ecc.).

E quindi siamo più disponibili, rispetto al passato, ad attivarci a sostegno di battaglie che sentiamo “giuste” indipendentemente dal proponente (azienda, colleghi, altri soggetti con cui condividiamo valori e/o bisogni, ong, ecc.).

E non è un caso che questo lo abbiano capito, prima di altri, proprio le aziende come Uber, Netflix o Airbnb che hanno fondato il loro business sulla rete e sulla disintermediazione.

E che utilizzano lo stesso approccio diretto anche nell’attività di rappresentanza dei propri interessi soprattutto quando si tratta di contrastare gruppi e aziende molto più forti (economicamente e politicamente) di loro.

Insomma due articoli molto belli e pieni di spunti di riflessione.

 

 

 

 

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